AFFERMAZIONE CON L’AIUTO DI MARTE
Keynes aveva qualcosa da dire agli economisti più giovani di tutto il mondo; le sue opinioni erano un’alternativa gradita alla disoccupazione e alla miseria – che non potevano essere più difese come una fase fisiologica nell’autorisanamento del sistema economico.[…] Ma la risposta degli economisti più giovani di Harvard era specifica; era proprio attraverso di loro che il sistema keynesiano sarebbe giunto negli Stati Uniti.[…] Così Harvard, che in precedenza era stata una roccaforte dell’alta ortodossia, sarebbe stata il punto di germinazione dell’economia keynesiana negli Stati Uniti.
Gran parte della reazione americana (politica e accademica) a Keynes non venne fin dopo la guerra; solo allora egli ebbe l’onore di essere considerato come una minaccia.
Le cose andarono secondo le previsioni di Keynes. La guerra portò in gran numero i keynesiani in posizioni influenti. L’altro servigio svolto dalla guerra fu quello di portare vividamente in evidenza un modello statistico dell’economia che forniva un forte sostegno quantitativo alle idee keynesiane. Questo modello fu opera di Simon Kuznets. Kuznets diede la forma e i valori statistici presenti a quelli che oggi sono i concetti comuni di prodotto nazionale lordo, di reddito nazionale e dei loro componenti.[…] Un conto era resistere alla teoria di Keynes, un altro e molto più difficile era resistere alle statistiche di Kuznets.
Fino agli anni della depressione inoltrati, gli Stati Uniti non ebbero indicazioni numeriche utili sul livello o sulla distribuzione della disoccupazione. In questo c’era una certa logica classica; non si spendeva denaro per raccogliere informazioni su ciò che, in omaggio a un principio economico superiore, non poteva esistere.
Uno degli allievi di Kuznets, Robert Roy Nathan fu assegnato a dirigere la pianificazione al War Production Board dopo la sua creazione nel 1942. Nathan e il suo personale elaborarono un programma della produzione bellica – aerei, carri armati, artiglierie, navi – chiamato il Victory Program, con tempi molto dettagliati. Esso superava di gran lunga ciò che altri a Washington, compresi i loro futuri colleghi al War Production Board, ritenevano possibile, o addirittura sensato. Ma c’erano le tabelle; esse mostravano quanto grandi fossero le risorse non utilizzate e disponibili.
Il concetto di prodotto nazionale lordo – che, forse per caso, in origine era essenzialmente ebraico – non era penetrato efficacemente nel Terzo Reich.
Simon Kuznets si pone come uno dei pilastri più importanti anche se meno riconosciuto del potere degli Alleati nella seconda guerra mondiale. Ecco riemergere anche qui i contributi di Kuznets: egli e i suoi collaboratori esposero le idee di Keynes in una forma statisticamente influente, mostrarono i vantaggi che si potevano ottenere in tempo di guerra rompendo l’equilibrio della sotto-occupazione e producendo con la piena capacità degli impianti, e fecero del prodotto nazionale lordo un’espressione familiare. Tutto questo è ancora altamente rilevante. Senza <<questa grande invenzione del XX secolo [la contabilità sociale] […], la macroeconomia sarebbe alla deriva in un mare di dati disorganizzati>>. Il contributo finale della guerra a diffondere le idee di Keynes consistette nell’avere mostrato che cosa la sua economia poteva realizzare attraverso l’intervento dello Stato.
Dal 1939 al 1944, il culmine corrispondente al tempo di guerra, il prodotto nazionale lordo in dollari costanti (1972) aumentò da 320 a 569 miliardi di dollari, ossia quasi raddoppiò. In mezzo a tanto parlare di privazione del tempo di guerra, le spese per il consumo personale in dollari similmente costanti non diminuirono, aumentando anzi da 220 a 255 miliardi. La disoccupazione nel 1939 fu stimata pari al 17,2 per cento della forza lavoro civile, mentre nel 1944 era scesa al valore irrilevante dell’1,2 per cento. […] Che questo fosse il risultato della pressione crescente della pubblica domanda sull’economia – gli acquisti da parte del governo federale di beni e servizi in questi anni aumentarono da 22,8 miliardi di dollari nel 1939 a 269,7 miliardi nel 1944 – nessuno poteva metterla seriamente in dubbio. Marte, il dio della guerra, nel suo corso ineluttabile e imprevedibile, aveva fornito a favore di Keynes una dimostrazione superiore a ciò che si sarebbe potuto – o dovuto – chiedere.
Nel 1929 la massima aliquota marginale dell’imposta sui redditi delle persone fisiche era stata del 24 per cento; essa aumentò durante gli anni del New Deal e nel 1945 era del 94 per cento.
Ma le voci della grande tradizione non furono affatto messe a tacere. Nel 1944, al culmine dello sforzo bellico e degli interventi del governo nell’economia, il professor Friedrich von Hayek, oggi all’Università di Chicago, tornò alla carica, affermando rigorosamente e severamente le regole dell’economia classica: <<il sistema dei prezzi assolverà la [sua] […] funzione solo se prevarrà la concorrenza, cioè se il singolo produttore dovrà adattarsi ai mutamenti di prezzo e non potrà controllarli>>. Ma persino Hayek mise l’accento non sull’inefficacia dell’intervento dello Stato bensì sulla sua minaccia alla libertà. […] Quello della minaccia alla libertà di scelta non fu, durante gli anni di guerra, un tema convincente. Milioni di persone avevano goduto allora della libertà più diretta di occupazione e di denaro da spendere, una libertà che coloro che parlavano di libertà nel modo più solenne sono per lo più inclini a ignorare. […] Qui, ancora una volta, furono gli eventi, non gli economisti, a decidere: eventi taciti, senza voce, che, non essendo riconosciuti, non incontrarono resistenza.
MERIGGIO
Gli economisti di questi anni (dopoguerra) furono sicuramente saggi sotto un aspetto: essi scelsero il tempo giusto per operare su scala nazionale. Mai, da Adam Smith in poi, e neppure dopo il periodo di prosperità descritto, gli economisti guardarono con maggiore soddisfazione al loro operato o, cosa forse più importante, godettero di un consenso così generale. Tutti ricordano però che<<Giove abbate i Titani / Non quando lungi ancora è il compimento, / Ma quando stanno deponendo ultima / Pietra sul monte a coronoare l’opra>>. Verso la fine degli anni Sessanta Giove attendeva al varco gli economisti mentre si apprestavano a coronare il loro edificio keynesiano. Il colpo avverso fu in parte una conseguenza di un fraintendimento delle condizioni economiche nei venticinque anni di prosperità. In quegli anni una serie di forze espansive, del tutto indipendenti da ogni guida economica, avevano stimolato l’economia americana e mondiale. Fra queste forze c’erano l’impiego in spese per beni di consumo dei risparmi accumulati nel prospero tempo di guerra: tale accumulo di risparmi ammontava alla fine della guerra negli Stati Uniti a 250 miliardi di dollari.
Keynes aveva proposto di seppellire banconote in miniere di carbone abbandonate, perchè gli scavi per recuperarle avrebbero dato un contributo benefico all’occupazione e al potere di acquisto. Armi di costo molto elevato, inutilizzabili a causa della loro potenza quasi apocalittica, stavano ora assolvendo sempre più lo stesso fine economico del denaro sepolto.
Le previsioni sono, in realtà, intrinsecamente inattendibili. Se così non fosse, i loro autori non le renderebbero mai di pubblico dominio: un gesto di una generosità inimmaginabile. Se infatti tali informazioni venissero riservate per un uso pecuniario privato degli individui e delle organizzazioni che le fanno, potrebbero condurre a un incremento di ricchezza considerevole. Gli investimenti eseguiti in accordo con tale previsioni darebbero profitti del tutto certi; persone e organizzazioni in grado di operare infallibilmente accumulerebbero un attivo sempre maggiore. Una volta conseguita una tale perfetta certazza, il capitalismo, il sistema della libera impresa in ogni forma oggi nota, cesserebbe di esistere.
I venticinque anni di prosperità giunsero al termine. La fiducia esuberante di questo periodo aveva impedito, come abbiamo già detto, una conoscenza più approfondita dei problemi. La separazione fra macroeconomia e microeconomia permise di conservare in quest’ultima un approccio alla struttura concorrenziale in senso classico ma, come vedremo, distolse purtroppo anche l’attenzione da sviluppi profondamente avversi alla gestione della macroeconomica o keynesiana. Fu questa la sua grave asimmetria politica. Quel che era stato politicamente possibile contro la delfazione e la depressione non era politicamente possibile o realizzabile contro l’inflazione. E’ questa la triste storia che passeremo ora a esaminare.
CREPUSCOLO E VESPRO
La General Theory di Keynes era, principalmente, un trattato sulla Grande Depressione. Il problema era quello della disoccupazione e della diminuzione dei prezzi; i primi keynesiani dedicarono poca o nessuna attenzione all’inflazione e nessuna agli aspetti politici del suo contenimento.
Gli economisti, come sempre, non si diedero cura di ciò che non era visibilmente preoccupante (riferendosi all’inflazione). […] In queste nuove nuove circostanze, l’asimmetria politica divenne del tutto evidente. Mentre i consiglieri economici del presidente si erano recati una volta nel suo ufficio per elogiargli i meriti relativi di una diminuzione delle tasse o di più elevate spese pubbliche, ora vennero a parlargli di aumenti delle tasse e riduzione della spesa pubblica.
Ai fini della lotta contro questa dinamica (inflativa), la Rivoluzione keynesiana aveva lasciato un’eredità fortemente negativa. La determinazione dei salari e dei prezzi era un fenomeno microeconomico e la microeconomia era stata separata dalla sfera d’azione di Keynes e lasciata all’ortodossia classica di mercato. Ammettere il ruolo inflativo della spirale dei salari e dei prezzi equivaleva a distruggere il compromesso.
In Austria, il caso più avanzato e coronato da maggior successo, i controlli sui salari e un sistema associato di limitazione dei prezzi furono messi in atto in modo notevolmente formale attraverso quella che fu chiamata la politica del mercato sociale. In altri paesi il procedimento fu meno formale; i salari furono contrattati nell’ambito dei prezzi esistenti e con l’intenzione generale di mantenere stabili i prezzi.
Ogni studioso di economia che si fosse soffermato con troppa persistenza sul ruolo della politica monetaria nella guida dell’economia rischiava di essere chiamato uno strambo monetarista. Informazioni sulla liquidità monetaria disponibile – M o moneta spendibile direttamente, M’ o depositi bancari vincolati – si potevano ancora trovare in questi anni presso gli economisti di tendenze più esoteriche, ma nessun quotidiano forniva questi dati e, se venivano stampati, non attraevano alcuna attenzione o commento.
Negli anni Sessanta e all’inizio degli anni Settanta era però in attesa che venisse il suo tempo la figura economica più influente della seconda metà del XX secolo; Milton Friedman dell’Università di Chicago, un fautore diligente, e persino infaticabile, della politica che sarebbe venuta a colmare il vuoto postkeynesiano, specialmente nei paesi di lingua inglese.
Friedman fu, e rimane, il principale esponente americano del mercato concorrenziale classico, che secondo lui esisteva ancora in forma sostanzialmente integra, a prescindere dalle conseguenze negative di un’intrusione governativa male ispirata. Monopolio, oligopolio e concorrenza imperfetta non ebbero una parte importante nel suo pensiero. Friedman si oppose energicamente a ogni sorta di regolamentazione governativa e di attività governativa in generale. La libertà, secondo lui, era massimizzata quando l’individuo era lasciato libero di usare il suo reddito a proprio piacimento. D’altra parte Friedman, a differenza dei suoi seguaci meno, raffinati, non era del tutto indifferente alla libertà derivante dall’avere del reddito da spendere. In quest’ottica egli formulò la proposta assistenziale più radicale del secondo dopoguerra. L’imposta sul reddito sarebbe dovuta, secondo la sua proposta , diminuire come sempre fino a zero all’approssimarsi alle categorie di reddito più basse. Ma nelle categorie più basse in assoluto lo Stato avrebbe dovuto ridistribuire reddito, assegnando sussidi di entità crescente al crescere del livello di povertà. Era questa una vera e propria imposta negativa sui redditi, un reddito minimo assicurato a tutti. Non molti economisti di sinistra avrebbero potuto rivendicare a se stessi un’innovazione di così grande rilievo.
Il contributo centrale di Friedman alla storia dell’economia fu, però, la sua insistenza sull’influenza dell’azione monetaria nel controllo dell’economia e, specificatamente, dei prezzi.
Come nella maggior parte delle relazioni statistiche, c’erano interrogativi su quale fosse la causa quale l’effetto e anche su quali fenomeni fossero semplici coincidenze.
Nessuno sapeva con certezza che cosa, nell’economia moderna, sia il denaro.
Alla prova dei fatti risultò che non era possibile controllare gli aggregati monetari. Friedman avrebbe infine accusato tanto il Federal Reserve System quanto la Bank of England, le banche centrali degl Stati Uniti e della Gran Bretagna, di grossolana incompetenza nei loro sforzi per controllarli. Nel 1983 il professor Friedman fu indotto a dire:<<Se la politica seguita dalla Federal Reserve è monetarismo, io non sono monetarista>>.
Il monetarismo avrebbe avuto anche il pregio di aggirare la scomoda asimmetria politica della linea economica keynesiana. Non sarebbe stato necessario alcun aumento di tasse nè alcun ampliamento delle funzioni del governo; l’intera politica monetaristica sarebbe stata condotta dalla banca centrale, negli Stati Uniti dal Federal Reserve System, con solo un personale direttivo trascurabile. Per alcuni la politica monetaria aveva (e ha) un’altra attrazione ancora maggiore, la quale era curiosamente, e persino imperdonabilmente, ignorata dagli economisti: quella di non essere socialmente neutra. Essa opera contro l’inflazione aumentando i tassi di interesse, i quali, a loro volta, mettono un freno ai prestiti bancari e alla risultante creazione di depositi, cioè di moneta. Gli alti tassi di interesse fanno molto piacere a persone e istituzioni che hanno denaro da prestare, le quali normalmente posseggono più denaro di coloro che non hanno denaro da prestare o, con molte eccezioni, di coloro che prendono a prestito del denaro. E’ questa una verità fin troppo evidente, come abbiamo già sottolineato a sufficienza. Nel favorire in questo modo individui ed enti ricchi, una politica monetaria restrittiva è in netto contrasto con una politica fiscale restrittiva, la quale, aumentando le imposte sui redditi delle persone fisiche e giuridiche, svantaggia i ricchi.
Il plauso al professor Friedman da parte dei ricchi conservatori, che è stato grande, è stato tutt’altro che immeritato.
Nell’ultima parte del decennio l’amministrazione dichiaratamente liberale del presidente Jimmy Carter negli Stati Uniti e il governo dichiaratamente conservatore del primo ministro Margaret Thatcher in Gran Bretagna avviarono una forte azione monetaristica. La Rivoluzione keynesiana fu messa in soffitta. Nella storia dell’economia l’età John Maynard Keynes cedette il passo all’età di Milton Friedman.
La grande azienda moderna soffre del grave handicap operativo dell’immortalità; non esiste una morte terapeutica.
Quanto l’etica e la pratica dell’organizzazione vengono ad abbracciare un numero sempre maggiore di dipendenti, l’equivalenza classica del costo marginale dei salari e del ricavo marginale diventa una caricatura inverosimile.
E’ questa la sorte della Rivoluzione keynesiana. Come molte altre cose in economia, essa fu giusta per il suo tempo, e il passare del tempo fu la sua nemesi.
IL PRESENTE COME FUTURO (1)
L’economia viene mantenuta nella tradizione classica o neoclassica prima di tutto dall’impegno intellettuale verso le idee stabilite. Questa è una costrizione molto forte. Ben pochi economisti sono disposti a rifiutare ciò che hanno accettato nella loro formazione anteriore e successivamente difeso ed elaborato nel proprio insegnamento, nei loro scritti e nelle loro conferenze. Abbandonare ciò che si è imparato e insegnato significa ammettere un errore precedente, una cosa a cui noi tutti opponiamo resistenza, così come resistiamo al pensiero esigente che si richiede per adattarsi al mutamento. Gli economisti non sono certo gli unici a trovare un compito del genere non solo scomodo ma addirittura doloroso.
Un’altra forza che tiene l’economia legata all’ortodossia classica e che continuerà a farlo è il potere – sottolineato in precedenza – dell’interesse economico. La grande dialettica del nostro tempo non è, come si supponeva in passato e come suppongono alcuni ancora oggi, quella fra capitale e lavoro, bensì quella fra l’impresa economica e lo Stato. Forza lavoro e sindacati non sono più i nemici primari dell’impresa e di coloro che ne dirigono le operazioni. Il nemico, se si trascura il ruolo mirabilmente e pericolosamente remnerativo della produzione militare, è il governo.
Durante la grave recessione dell’inizio degli anni Ottanta, negli Stati Uniti e altrove nel mondo industriale ci fu un declino nella produzione di una vasta gamma di beni e servizi. Non si pensava però che qualcuno avrebbe sofferto a causa di ciò che non veniva prodotto, eccezion fatta di nuovo per le abitazioni. Le privazioni di questo genere non ricevettero alcuna menzione. I casi di vera sofferenza venivano identificati nell’interruzione del flusso di reddito, ossia nella disoccupazione o nella perdita dell’impiego. Quest’ultima e non i prezzi elevati o la diseguaglianza della distribuzione del reddito, è chiaramente il timore sociale primario del nostro tempo. Nella moderna economia industriale l’importanza suprema della produzione consiste non nei beni che essa produce ma nell’occupazione e nel reddito che fornisce.
IL PRESENTE COME FUTURO (2)
Una visione perspicace della necessità di investimenti nel capitale umano – nell’istruzione nel senso più vasto – è implicita negli atteggiamenti economici giapponesi. Di qui derivano la forza lavoro estremamente competente e il vasto talento tecnico e amministrativo del Giappone. Nel successo giapponese ha un’importanza centrale anche l’assenza di investimenti, relativamente sterili e improduttivi, in operazioni e prodotti militari.
Il lavoratore giapponese viene assunto come parte integrante dell’impresa, e viene assunta per tutta la vita.
Gli economisti giapponesi della generazione presente – Hirofumi Uzawa dell’Università di Tokyo, che è considerato il principale economista giapponese; Shigeru Tsuru, che ha studiato ad Harvard ed è molto noto e ammirato negli Stati Uniti (e che in gioventù fu un importante studioso marxista); Ryutaro Komiya, che ha studiato anche lui in America e che insegna all’Università di Tokyo; e Kazushi Ohkawa, il pianificatore della contabilità nazionale delle entrate e dei prodotti del Giappone – avranno negli anni a venire un riconoscimento crescente in tutto il mondo, assieme ad altri e ai loro successori. E, a differenza dei loro colleghi americani o britannici, essi avranno il sostegno di un’economia che funziona alla perfezione.
Di fronte alla concorrenza straniera, la grande azienda industriale ricerca tariffe e anche quote che la liberino dalla pressione delle costrizione del mercato. Dopo un elogio cerimoniale del libero mercato, si tende a far valere il bisogno di un’eccezione. Una ripresa di sentimenti e leggi protezionistici nei paesi industriali di più vecchia tradizione, che è già in corso attualmente, si affermerà in grado ancora maggiore in futuro. Un volta le tariffe protezionistiche si proponevano di proteggere industrie ai primi passi: oggi esse devono proteggere industrie vecchie e presumibilmente senili.
Un secondo progetto ben affermato per venire a capo della concorrenza è semplicemente quello di assumerne il controllo. Questo è lo scopo delle società internazionali e multinazionali. Queste società sono considerate da molto tempo uno strumento di aggressione, e persino di imperialismo, sulla scena mondiale. Molto più importante è il loro scopo protettivo, l’intento di sottrarsi alle costrizioni del mercato.
Negli Stati Uniti l’amministrazione Reagan ha ripetutamente messo da parte la sua retorica del libero mercato per andare in aiuto di banche sull’orlo del fallimento e di esportatori in difficoltà e per proteggere dal libero mercato, a costi senza precendeti, certe categorie di agricoltori. Ancora una volta, prima si parla delle verità eterne della libera impresa e poi si argomenta a favore di una particolare eccezione. Il socialismo, al nostro tempo, non è una conquista dei socialisti, il socialismo moderno è il figio degeneredel capitalismo.E così sarà negli anni a venire.
In tempi recenti la distinzione fra microeconomia e macroeconomia è stata attaccata dai partecipanti a un convegno economico impeccabilmente nella tradizione classica, i quali hanno sostenuto che, quando si sa che stanno per essere adottate certe misure macroeconomiche – mutamenti nella tassazione, nella spesa pubblica, nella politica della banca entrale -, le si anticipa con il risultato di annullarne l’effetto. Un’attesa microeconomica razionale del mutamento macroeconomico sconfiggerà quindi la politica macroeconomica. In questa particolare posizione – la scuola delle attese razionali – c’è una qualità mistica che ne limita l’accettazione persino fra coloro che sono altrimenti favorevoli all’ortodossia classica. Essa rappresenta nondimeno un interessante indebolimento della dicotomia fra microeconomia e macroeconomia. <— così si pensava nel 1987.
L’economia non ha un’esistenza utile separata dalla politica, e non l’avrà, così si spera, neppure in futuro.
Le idee economiche, come sostenne Keynes, guidano la politica. Ma le idee sono anche i prodotti della politica e degli interessi che questa serve.